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IL SOCCORSO AL PZ PEDIATRICO RAPPRESENTA il 3/5% degli interventi a livello nazionale. La difficoltà rappresentata dal trattamento di questo particolare pz è costituita da fattori tecnici/operativi, dalla scarsa frequenza di veri e propri interventi, ma soprattutto dalla sofferenza fisica ed emotiva del bambino stesso.

Il piccolo pz rappresenta quindi una sfida per l’operatore; che esso sia un professionista oppure un volontario. Il soccorritore dovrà perciò affrontare un’emergenza di natura medico/traumatica, e allo stesso tempo trattare il disagio emotivo del piccolo, facendo i conti con la propria capacità di contenerne la sofferenza.

La natura problematica del trattamento di un bambino nasce dalla presa di coscienza che per questo tipo di pz si debba fare qualcosa in più, o meglio ci si debba impegnare particolarmente per tutelarne la vita e l’incolumità. Il pz pediatrico appare infatti più indifeso e suscita nell’operatore sentimenti di tenerezza, in alcuni casi l’emergere di ricordi passati di quando si era bambini.

È quindi di grande importanza possedere uno strumento aggiuntivo, di fatto uno strumento relazionale, per affrontare il suo disagio del piccolo pz, che andrà associato ad una altrettanto importante pratica tecnica.

 

E’ importante che tutti coloro che sono impegnati in una relazione d’aiuto nei confronti di un bambino, siano in grado di identificare e tradurre in parola la capacita operativa in relazionale, atta a comunicare efficacemente con il bambino e di governare le emozioni che ne scaturiscono, senza la necessità di negarle o rimuoverle, riuscendo a non lasciarsi travolgere da esse.

Soccorere il bambino a 360 gradi, significa non permettere al loro dolore, alle loro angosce e paure di invaderci e distruggere il nostro equilibrio. Bisogna capire cosa vede il bambino quando ci guarda e cosa vediamo noi guardando lui.

 

Il bambino ci parla con una lingua che dobbiamo essere in grado di tradurre. Il bambino non parla alla nostra sfera razionale,  parla attraverso la voce dell’istinto. per ascoltarlo veramente dobbiamo ascoltarlo con la nostra parte istintiva. Non capiremo mai davvero un bambino, non sapremo mai interpretare i suo messaggi (bisogni, desideri, richieste di aiuto) se non lasceremo libera la nostra parte istintiva, se continueremo a pensare che il bambino “ragiona” come noi, conosce e, soprattutto, è in grado di adeguarsi alle nostre convenzioni sociali. Non padroneggia, come noi, i suoi bisogni ed non è in grado di procrastinarli, ha delle categorie mentali ben strutturate entro le quali incasellare la realtà.

L’ascolto è un’attività delicata, molto più difficile di quanto possa sembrare. E’ già molto delicata se riguarda un altro che parla il nostro stesso linguaggio, che utilizza le nostre convenzioni e le nostre categorie. Diventa arduo dialogare con colui che parla un’altra lingua e adotta schemi mentali diversi dai nostri, in particolar modo se influenzato e coinvolto in un evento di natura medico/traumatica.

Cio significa che non bastano le buone intenzioni, anzi, un po’ provocatoriamente potremmo affermare che le buone intenzioni non solo non bastano ma, a volte, non servono.

 

Essendo La comunicazione  con il bambino una comunicazione tra due parti istintive,  non è mediata neanche dalle “intenzioni.”

Trattare e relazionarsi con un bambino durante un soccorso non è certamente facile, ma nemmeno impossibile. L’acquisizione di abilità atte a massimizzare il nostro lavoro non passa solamente dalla formazione continua sulle normali tecniche di soccorso, ma anche dalla comunicazione efficace con il paziente bambino. Le esperienze condivise e la letteratura possono aiutarci a tirar fuori il risultato migliore dal nostro soccorso che potrà essere cosi’ più efficace e fluido .

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Preso da: Convegno a carattere nazionale organizzato dalla P.A. Croce Blu di Soliera.

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